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sabato 13 febbraio 2016

La giurisdizione ecclesiastica nel tempo di crisi nella Chiesa

Abbé Belmont : «La giurisdizione in tempo di crisi»

Nota: Di seguito la traduzione di un articolo di Don Hervé, utile per orientarsi nella questione della validità/liceità delle Confessioni amministrate oggi dai sacerdoti privi di giurisdizione.

Ancora ultimamente un sacerdote della fsspx, don Mauro Tranquillo, è intervenuto nel merito ripetendo le stesse e discutibili argomentazioni da sempre correnti nella fsspx: argomentando cioè a favore di una “giurisdizione di supplenza” che però - come ben dice l’Autore più sotto - in realtà non esiste né è mai esistita nella Chiesa, essendo cosa ben diversa dalla supplenza di giurisdizione di cui qui si discute. 

Sempre a tali argomentazioni ha, tra l'altro, di nuovo brevemente ribattuto anche Don Francesco Ricossa (richiamando, oltre che i principi, la posizione di Don Tranquillo) nel convegno di Milano del 2014 dedicato alla Tesi di Cassiciacum (cfr. trascrizione, obiezione n. 7, in cui viene addotta una citazione assai esplicativa dalla Summa theologiae moralis, 1935, del B. H. Merkelbach o.p.).

Le note al testo, come la breve introduzione di sotto, sono dello stesso Belmont.

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La giurisdizione in tempo di crisi

4 luglio 2009


Troverete nel documento allegato un piccolo lavoro ch’è lo studio di una questione spinosa ma non insolubile: quella della validità delle assoluzioni date senza giurisdizione regolare nella presente crisi della Chiesa.

È un soggetto importante, non solamente in ragione delle conseguenze pratiche che facilmente s’indovinano, ma anche in ragione dei principi impiegati. Poiché dalla verità e rettitudine di questi principi dipendono anche le soluzioni di numerose altre questioni. Esse non sono richiamate in questo breve studio, ma si possono intuire in filigrana.

Che la santa Vergine Maria ci doni la grazia di una fedeltà rigorosa, intelligente e innamorata della santa Chiesa cattolica.

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Giurisdizione per le confessioni in tempo di crisi.


La giurisdizione è necessaria per le confessioni o, più esattamente, è necessaria per la validità dell’assoluzione sacramentale : ecco qui un’affermazione tanto dogmatica quanto canonica della Chiesa cattolica. Non c’è modo di mettere in dubbio che ci si trovi in presenza di una verità che appartiene alla fede cattolica.

È in primo luogo un’affermazione dogmatica: «Quoniam igitur natura et ratio judicii illud exposcit, ut sententia in subditos dumtaxat feratur, persuasum semper in Ecclesia Dei fuit et verissimum esse Synodus haec confirmat, nullius momenti absolutionem eam esse debere, quam sacerdos in eum profert, in quem ordinariam aut subdelegatam non habet jurisdictionem – Poiché la natura e l’indole del giudizio richiede che la sentenza venga pronunziata soltanto nei confronti di coloro che sono soggetti, la chiesa di Dio ha sempre espresso la convinzione, che questo sinodo conferma essere verissima, che non deve avere nessun valore l’assoluzione che il sacerdote pronuncia in favore di una persona sulla quale non abbia una giurisdizione ordinaria o delegata.» Sessione XIV, Decreto della Penitenza e dell’Estrema Unzione, c. 7, Denzinger 903.

È anche un’affermazione canonica: «Praeter potestatem ordinis, ad validam peccatorum absolutionem requiritur in ministro potestas jurisdictionis, sive ordinaria sive delegata, in poenitentem – Oltre al potere d’ordine, per l’assoluzione valida dei peccati, occorre nel ministro un potere di giurisdizione, ordinario o delegato, sul penitente» Canone 872.

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La giurisdizione è una nozione analogica, che comprende realtà assai differenti. Nel caso della confessione, giurisdizione significa assegnazione di soggetti nell’ordine giudiziario. Il potere d’assolvere è un potere di giudizio – di giudizio assolutorio – che non può esercitarsi se non nei confronti di soggetti che sono stati assegnati, dall’autorità legittima, a colui che deve giudicare.

Già nell’ordine naturale e civile, è ovunque stipulato e universalmente accolto che un giudice non può esercitare la sua funzione giudiziaria al di fuori del territorio della sua giurisdizione e al di fuori delle sessioni regolarmente stabilite. Se egli è in villeggiatura per esempio, non può emettere nessuna sentenza: le persone del posto non sono dei «giudicabili» ed egli non siede in un tribunale legittimamente eretto. Non è che un vacanziere tra gli altri.

Questa analogia con l’ordine naturale è eloquente e provoca l’adesione dello spirito perché rende evidente la necessità della giurisdizione. Ma essa è anche l’occasione per mettere in luce un punto estremamente importante.

Nell’ordine naturale, la giurisdizione è costitutiva del potere giudiziario. Il giudice è un uomo che niente distingue dagli altri, ma che è costituito giudice per il fatto che gli è accordata una giurisdizione di tale natura. Senza questa giurisdizione, niente ne sarebbe.

Il prete ha anche lui un potere giudiziario, ma questo potere non è costituito dalla giurisdizione. Egli è costituito nella sua essenza dal carattere sacramentale ricevuto all’ordinazione e condizionato nel suo esercizio dalla giurisdizione [1] . L’assenza di giurisdizione non toglie il potere giudiziario del prete ma impedisce che venga esercitato.

Per questa ragione, la giurisdizione necessaria per confessare è affine ad una legge restrittiva : non si può assolvere che sul tal territorio, o durante tal periodo, o tal gruppo di persone, o tale categoria di peccati.

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Questa affinità con le leggi restrittive rende conto [tecnicamente] del fatto che la Chiesa supplisce «facilmente» ai difetti di giurisdizione: errore comune, giurisdizione dubbiosa, certi scavalcamenti involontari di giurisdizione, articolo di morte e pericolo di morte (canoni 209 e 882 [2], che la Chiesa interpreta [3] e lascia interpretare [4] con larghezza).

Questa assimilabilità con le leggi restrittive rende conto anche del fatto che in tempo di estrema necessità la giurisdizione regolare non sia più richiesta ad validitatem. In questo caso, infatti, la restrizione, invece di assicurare – com’è il suo ruolo – la santità e la disciplina del sacramento di Penitenza, andrebbe direttamente contro l’esistenza stessa e il fine del sacramento, poiché non ci sarebbe più affatto modo d’usarne, più nessuna remissione sacramentale dei peccati.

Ed ecco un’analogia che non prova, ma che permette di cogliere ciò che è in causa. Il diritto del proprietario è un diritto naturale confermato dalla legge divina positiva : ciò ch’è solido, certo, divinamente attestato e garantito. Ma siccome i beni di cui l’uomo può rendersi proprietario in questo mondo hanno originariamente una destinazione comune (che resta soggiacente), il diritto di proprietà è un diritto restrittivo, un diritto che limita e riserva il possesso e l’uso di un tal bene a una tale persona, un diritto che rimane subordinato al bene comune. In caso di estrema necessità la restrizione cessa, perché precisamente essa è restrizione : In extrema necessitate omnia communia sunt. Il settimo comandamento di Dio rimane parimenti integro, universale, senza diminuzione, senza negazione.

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Questa parentela con le leggi restrittive spiega bene l’interpretazione che di questa necessità della giurisdizione fa sant’Alfonso Maria dei Liguori [5] , il quale gode di una autorità particolare e di una garanzia speciale relativa alle conclusioni della sua teologia morale [6].

Egli afferma che la supplenza di giurisdizione per il sacramento della penitenza in favore dei morenti può estendersi a certi casi equivalenti.

Per questo, egli comincia con l’affermare che ogni prete può assolvere (da ogni peccato e da ogni censura) colui che fosse in articulo mortis. Si domanda poi se ciò si applicherebbe egualmente a chi fosse in periculo mortis ma non in articulo mortis e risponde affermativamente, precisando che dev’esserci «prudens timor mortis ex illo periculo eventurae – un prudente timore della morte che può provenire da questo pericolo».

In seguito aggiunge questo: «Tale autem periculum censetur adesse in praelio, in longa navigatione, in difficili partu, in morbo periculoso, et similibus – si presume trovarsi in un tal pericolo chi è in combattimento, in una lunga navigazione, in un parto difficile e altre cose del genere. Idem de eo qui est in periculo probabili incidendi in amentiam – stessa cosa per chi è in pericolo probabile di divenire folle. Idem de captivis apud infideles cum exigua spe libertatis, si credantur nullos alios sacerdotes habituri – stessa cosa per i prigionieri tra gli infedeli che non hanno se non una debole speranza di liberazione, se stimano non poter accedere ad un prete con giurisdizione abituale.»

In tutti questi casi, si può quindi validamente e lecitamente rivolgersi ad un prete privo di giurisdizione regolare. Ciò che sant’Alfonso dice dei prigionieri presenta una analogia reale con il caso dei fedeli nella crisi della Chiesa, e induce a farne un’applicazione alla situazione presente.

Occorre notare di sfuggita che sant’Alfonso non menziona nessuna condizione di «grave pericolo spirituale» o qualcosa del genere, e che una tale esigenza non si trova presso alcun autore. Se fosse così, non sarebbe possibile confessarsi senza essere in stato di peccato mortale – il che sarebbe una sorta di paradosso. {*}

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La situazione tragica della santa Chiesa – assenza d’autorità pontificia, colonizzazione delle strutture della Chiesa a opera di una religione eretica e sacrilega, scarsità di preti – e i grandi pericoli per l’anima che porta in sé il mondo moderno : costituisce obiettivamente una grave necessità nella quale la supplenza della Chiesa rende valida l’assoluzione data da un vero prete. Nell’atto stesso dell’assoluzione, Gesù Cristo e la sua Chiesa suppliscono alla giurisdizione mancante. Ciò è d’altronde vero anche se il prete o il penitente si sbagliano quanto all’esistenza, alla gravità o alla natura della crisi : il fondamento della necessaria supplenza non è nel loro giudizio (vero o falso), ma nella realtà oggettiva.

Tutto ciò che precede non riguarda che il sacramento della Penitenza e non può essere trasposto in un altro dominio: in questo solo caso, infatti, si ha a che fare con una legge al modo delle leggi restrittive, si ha a che fare con un potere sacramentale posseduto innanzitutto e indipendentemente da una legge che ne limita l’applicazione.

Tutto ciò nemmeno permette d’affermare l’esistenza di una «giurisdizione di supplenza», come se mediante supplenza la Chiesa conferisse una vera giurisdizione e assegnasse quindi dei soggetti in maniera stabile e abituale : è impossibile senza ingiunzione dell’autorità legittima. Siamo in presenza di una supplenza di giurisdizione, vale a dire di una supplenza per modum actus (volta per volta, nell’atto sacramentale stesso) necessario a causa dell’assenza di ogni giurisdizione.

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Se c’è una questione nella quale bisogna fuggire il falsi principi e diffidare delle «evidenze » avventate, è proprio questa. Questa fuga è necessaria non solamente perché i falsi principi distolgono dalla verità, ma forse più ancora perché questi principi, giungendo ad insediarsi nelle coscienze, poi s’estendono, acquisendo lo statuto di verità provate, e fanno danni minando la dottrina cattolica. In materie così gravi che toccano così da vicino la Rivelazione divina, la Costituzione della Chiesa e l’ordine sacramentale, questi danni non possono che essere catastrofici.

Così come è vano e pericoloso giustificare la legittimità delle assoluzioni di cui abbiamo parlato immaginando un «pericolo di morte» che colpirebbe la Chiesa stessa; o argomentando che la necessità della giurisdizione non dipende dal diritto divino; o forgiando di sana pianta la nozione di una giurisdizione «sgocciolante» che sarebbe concessa senza ingiunzione dell’autorità, e persino a sua insaputa e suo malgrado (perché se l’autorità sapesse quanto siamo nel giusto e quanto siamo sensazionali, essa s’affretterebbe a donarcela, vero!).

Queste perorazioni sono imbastite su principi inventati di sana pianta : esse non si riferiscono né alla natura delle cose, né alla legge della Chiesa che ci fa conoscere e applica questa natura delle cose. Esse non possono che indebolire l’intelligenza della fede, ridurre a niente la sottomissione dovuta alla Chiesa, e propagare cecità. È il peggiore dei castighi.

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NOTE.


[1] Avevo già avuta occasione di applicare questo punto di dottrina nel numero 6 dei Cahiers de Cassiciacum (1981), pag. 9 :

«Ammettiamo assolutamente che nella situazione d’anarchia (in senso proprio) in cui ci troviamo, c’è supplenza divina in favore dei fedeli per quello che riguarda il potere di Santificazione della Chiesa.

«Ma, sembra, che tre fattori siano necessari per l’esistenza di una tale supplenza (eccettuati quelli espressamente previsti dal Diritto):

• la necessità generale, e non un caso particolare;
• l’impossibilità di un ricorso all’Autorità. È l’Autorità ch’è giudice degli atti sacramentali che dobbiamo compiere; un cedimento accidentale dell’Autorità non può lasciar spazio ad una supplenza. Se il cedimento è essenziale e abituale, è l’esistenza stessa dell’Autorità ch’è messa in causa;
• un fondamento reale in colui che deve agire in virtù di una supplenza. Un tale fondamento non può che essere il carattere impresso dal sacramento dell’Ordine.

«È perché il prete cattolico possiede questo Carattere sacerdotale che Nostro Signore Gesù Cristo e la Chiesa suppliscono per la messa in opera di questo Carattere, il cui normale esercizio è impedito a gran danno delle anime.

«Sono quindi esclusi gli atti di pura giurisdizione (dispensare da un impedimento di Matrimonio, accordare un’indulgenza) che non sono la messa in opera del Carattere sacramentale, e gli atti di cui il prete non è che il ministro straordinario (confermare, conferire gli ordini minori).

«Nel caso del Sacramento di Penitenza, la supplenza non conferisce giurisdizione, ma il Cristo e la Chiesa suppliscono al difetto di giurisdizione in ciascuna assoluzione, perché il prete è, per il suo Carattere sacerdotale, metafisicamente ordinato a dare una tale assoluzione. La giurisdizione normalmente necessaria non dà al prete il potere di confessare, gli dà un soggetto sul quale esercitare il suo potere [Nota. Vedere, per es., Journet, L’Église du Verbe Incarné, I. La Hiérarchie apostolique, chapitre V. Per l’edizione del 1941, Excursus III, p. 191; per l’edizione del 1955, Excursus IV, p. 217]»

[2] Canone 209 : «In errore communi aut in dubio positivo et probabili sive juris sive facti, jurisdictionem supplet Ecclesia pro foro tum externo tum interno – In caso d’errore comune o di dubbio positivo e probabile, su un punto di diritto o di fatto, la Chiesa supplisce la giurisdizione per il foro sia esterno che interno.» Canone 882 : «In periculo mortis omnes sacerdotes, licet ad confessiones non approbati, valide et licite absolvunt quoslibet poenitentes a quibusvis peccatis aut censuris, quantumvis reservatis et notoriis, etiamsi praesens sit sacerdos approbatus, salvo praescripto can. 884, 2252 – In pericolo di morte, ogni prete, anche non approvato per le confessioni, assolve validamente e lecitamente non importa qual penitente da ogni peccato o censura, anche riservata o notoria, quand’anche un prete approvato fosse presente, le prescrizioni dei canoni 884 e 2252 rimangono salve.»

[3] Per esempio, la Sacra Penitenzieria (18 marzo 1912 e 29 maggio 1915 – AAS 1915, p. 282) afferma che ogni soldato richiamato in tempo di guerra può essere considerato in uno stato equivalente a coloro che sono in pericolo di morte e può pertanto essere assolto da ogni prete che incontra. Per esempio ancora, la Commissione d’interpretazione del codice ha risposto (26 marzo 1952 – AAS 1952, p. 496) che detto canone 209 s’applica al prete che assiste un matrimonio. Il caso del matrimonio è radicalmente differente dalla Penitenza, perché il prete non ne è il ministro. Ma questa referenza mostra che la tendenza della Santa Sede è assai chiaramente per l’allargamento del canone 209.

[4] In ciò che riguarda il canone 209, si veda l’articolo oltremodo vasto di A. Bride nella Revue de Droit canonique (settembre 1953, pp. 278-296 e marzo 1954, pp. 3-49) a proposito dell’errore comune. Capello, De poenitentia, nn. 339-350 (ed. 1953), va nel medesimo senso.
Per quello che riguarda il canone 882, si trovano testi di autori che ammettono una applicazione larga della supplenza in pericolo di morte, presso Coronata (Institutiones Juris Canonici, IV n. 1760) e in un articolo di Gomez (De Censuris in genere, Canones 2241-2234, Angelicum, 1955). Coronata e Gomez affermano la supplenza semplicemente in ogni caso in cui il penitente si trova in una condizione nella quale non avrà un confessore [con giurisdizione abituale] vicino, e Gomez afferma che basta che questa condizione consti anche in modo dubbioso, perché il dubbio in questione basterebbe per beneficiare del canone 209.

[5] Theologia moralis, lib. VI, n. 561, q. 2, Édition de Malines 1852, tomo VII, pagina 21.

[6] Sono numerosi i testi pontifici che affermano questa autorità eminente di sant’Alfonso dei Liguori. Quello maggiormente probante ai miei occhi, e il più significativo per l’interpretazione del diritto della Chiesa, è la risposta della Sacra Penitenzieria del 5 luglio 1831 che stabilisce questa autorità in due tempi: si possono professare e seguire in tutta sicurezza di coscienza (sequi tuto et profiteri) le opinioni di sant’Alfonso professate nella sua Teologia morale; non si deve turbare un confessore che si limita a seguire le opinioni di sant’Alfonso nell’amministrazione del sacramento della Penitenza.

{*} Nel testo: “Se fosse così, non sarebbe possibile confessarsi [presso un prete senza giurisdizione, n.d.t.] senza essere in stato di peccato mortale – il che sarebbe una sorta di paradosso. Ciò perché assimilerebbe il prete con e senza giurisdizione alle esigenze ordinarie del penitente, renderebbe cioè vana la stessa giurisdizione o la sua legale attribuzione, ammettendo per la validità la mera ordinazione.

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